La trasversalità come regola di vita: intervista a Nicola Galli in scena ad Attraversamenti Multipli
written by
Renata Savo
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Scene contemporanee [ June 2022 ]
Nicola Galli è performer e coreografo con base a Ravenna, di cui abbiamo cominciato a sentire parlare
dieci anni fa esatti quando, appena ventunenne, presentò per la sezione Waiting for DNA di Romaeuropa Festival,
il suo 'O | proiezione dell’architettura ossea', che non ci lasciò indifferenti. Lo incontriamo dieci anni dopo a Roma
nell’ambito di Attraversamenti Multipli, con una sorta di “rituale danzato”, che prende il nome di 'Il mondo altrove',
in cui Galli interpreta una figura mascherata, sciamanica e misteriosa, spettacolo che avevamo intercettato al
Kilowatt Festival nel 2021. Nella performance, fondata sulla relazione tra gli sguardi e gli spostamenti nello
spazio di questa figura straordinaria, visivamente spiazzante, vi si apprezza una grande cura nella ricerca
spaziale e anche uditiva; quell’elemento, quasi pre-mitologico, non solo si percepisce non come armonico
ma persino come “necessario” all’interno del paesaggio in cui si inserisce.
Di questo spettacolo e molto altro abbiamo parlato con Nicola Galli in una telefonata pre-evento.
La prima volta che ti ho visto in scena è stato ben 10 anni fa, in 'O | proiezione dell’architettura ossea', una performance che
presentasti all’Opificio in via dei Mercati Generali nell’ambito del progetto di Romaeuropa Festival dedicato ai talenti
della nuova danza nazionale. In che direzione, da allora, ovvero da “quel” Nicola Galli di dieci anni fa, si è evoluto
il tuo percorso (pandemia compresa)? Cosa hai aggiunto, in termini anche di competenze e di studio, e cosa,
invece, hai capito che dovevi lasciarti alle spalle?
Oltre che essere stato il nostro primo incontro, quell’occasione è stata la mia prima data di
spettacolo a Roma, nella quale presentavo una performance ispirata alla figura geometrica del quadrato in relazione
alla struttura scheletrica del corpo umano. In dieci anni, quella forma quadrata ha poi incontrato la figura geometrica del
cerchio, per provare ad aderire alle fondamenta del pensiero vitruviano, che inscrive un ordine del corpo all’interno di un
ordine geometrico quasi cosmico; poi sono passato da una versione bidimensionale delle forme a una versione tridimensionale,
quindi ho preso in considerazione i solidi fino a guardare “in alto” e volgere la mia attenzione al cosmo. Partendo quindi
da quella primissima fascinazione per la geometria, il mio percorso ha sempre cercato di focalizzarsi su nozioni e sull’idea
di ibridare i saperi, i pensieri e le pratiche corporee. Questo incrocio tra le discipline che ruotano intorno alla corporeità
è sempre stata la chiave di volta per portare avanti la mia ricerca, miscelando l’anatomia, le scienze naturali, la geometria,
l’astronomia. Abbraccio una sorta di orizzonte di pensiero votato alla trasversalità, credo sia una peculiarità che mi appartiene.
Non arrivo da un percorso accademico, “tradizionale”, rispetto alla danza e alle pratiche corporee, ci sono quasi inciampato.
Ciò ha fatto sì che il mio sguardo fosse sempre rapito non solo dalla danza, ma anche da altre discipline, le arti visive,
l’installazione, la performing art. Se penso al mio cammino, credo di aver seminato e lasciato alle spalle la forma più fissa
della danza pura, quella che tende a incastonare il corpo, e l’ho fatto per cogliere una organicità che è intrinseca,
un ordine nascosto che organizza e scandisce tutti i ritmi e i fenomeni che abitiamo.
La danza è stata una sorta di incidente di percorso, dicevi. Perché? Qual è stata la tua formazione?
Ho iniziato come ginnasta: dai quattro anni fino all’adolescenza ho praticato ginnastica artistica a livello agonistico.
Il tema del corpo quindi è sempre stato il centro della mia formazione. Per un arricchimento personale ho incontrato
l’hip hop, la danza rinascimentale, le arti marziali e la danza contemporanea; parallelamente sono sempre stato
affascinato dalle tecnologie, dalle arti visive, e in particolare dalla fotografia. Quando ho deciso di trasformare questo
percorso personale (che mi nutriva personalmente) in un lavoro, evidentemente, come un imbuto, tutte le mie passioni
sono confluite. Credo sia un po’ la mia peculiarità il fatto di tenere fede a tutte. C’è una porosità tra le discipline,
questo mi ha permesso di non abbandonare nulla: tutte le discipline rimangono in equilibrio e si compensano.
Attraversamenti Multipli è un festival perfettamente in sintonia con questo tuo sentire,
c’è una convergenza di pensiero. Qui ti esibisci in 'Il mondo altrove: una storia notturna', una performance site-specific.
Al Kilowatt Festival un anno fa ho assistito a 'Il mondo altrove: un dialogo gestuale'. Il paesaggio di Sansepolcro
è molto diverso da quello – che personalmente amo moltissimo – dal Parco di Torre del Fiscale a Roma.
Qual è il filo che lega questi due lavori, se per te c’è, e da dove sei partito, nel tuo esercizio di comprensione
della “specificità” di questi due luoghi per accoglierla nel tuo lavoro performativo?
Il progetto coreografico 'Il mondo altrove' è una sorta di rituale danzato che celebra un mondo completamente inesplorato.
Si declina in diversi formati: dallo spazio teatrale a incursioni dedicate agli spazi urbani. In questa creazione interpreto
una figura sciamanica con il volto velato da una maschera; una figura indigena che esplora gli spazi con cui entra in contatto
e in cui incontra lo sguardo degli spettatori e delle spettatrici che divengono delle figure quasi straniere. Ci si sente come stranieri
di fronte agli stranieri in questo incontro, eppure si attiva un vero e proprio dialogo, fatto non di parole, ma di gesti e di movimenti
che sono l’emblema dell’incontro intimo, quello in cui si schiude un’intenzione di sostegno vicendevole. La sensazione è
di partecipare a un vero e proprio rito, che è in qualche misura una comunione, una epifania tra gli esseri umani in relazione
alla natura. In occasione di Attraversamenti Multipli la proposta della direzione artistica è stata splendida,
perché la cornice dell’acquedotto romano del Parco di Torre del Fiscale è un quadro. In questo luogo farò un intervento
di arte visiva realizzando un cerchio di luce nel quale si svolgerà questo rituale danzato al tramonto. Il crepuscolo
con le sue cromie sarà il momento ideale. Nel momento in cui il sole raggiungerà l’orizzonte si terrà quella magia che
è l’incontro con il pubblico, la vicinanza tra questa figura e gli osservatori e osservatrici di questo mondo inesplorato.
'Genoma scenico' ha aderito in modo perfetto a quella fase di chiusura dei teatri
che abbiamo vissuto nella prima e nella seconda ondata della pandemia: ma questo dispositivo, che mescola l’hic et nunc
della performance con la virtualità e l’obsolescenza dei media digitali, è nato prima. Nel 2018, per un museo.
Come vedi oggi con il “senno di poi” questa coincidenza? Ti aspettavi questo successo?
Più che il successo, non mi aspettavo tanto potenziale. Sono sempre rimasto molto colpito da questo progetto
perché mi ha regalato a più riprese delle sorprese. Il progetto nacque in occasione di una mostra temporanea
dedicata alle recenti scoperte sul tema del genoma umano, da una sfida che lanciò, a Trento, il MUSE Museo delle Scienze
in collaborazione con il Centro Servizi Culturali S. Chiara, ai quali si aggiunsero altri partner italiani. La peculiarità del MUSE
è quella di poter fare esperienze in prima persona attraverso il tatto e attraverso i sensi, toccando le tassidermie e fare diversi
esperimenti. Con il desiderio di creare una sorta di parallelismo in una modalità molto concreta tra la danza e i temi così
astratti della genomica, nacque 'Genoma scenico'. Abbracciati dall’architettura vetrata del museo, disegnato da Renzo Piano,
la performance è interattiva e si basa sulla stretta relazione tra i performer e il pubblico con un obiettivo ludico:
lo scopo del gioco è scoprire i parametri, gli “ingredienti” di uno spettacolo di danza, e creare in modo istantaneo
delle brevi performance utilizzando un dispositivo composto da tessere utile per guidare e offrire informazioni agli interpreti.
Il carattere ludico e interattivo del progetto si è poi declinato successivamente in un vero e proprio metodo educativo
dedicato a giovani danzatori e danzatrici in formazione, accademie e a docenti. Già questa fu una sorpresa, perché
quando stavamo progettando il dispositivo, il gioco e le sue regole, avevamo capito di aver creato una metodologia
che poteva essere trasmissibile: 'Genoma scenico' poteva diventare uno strumento indispensabile anche per la formazione.
Un’ulteriore sorpresa fu la digitalizzazione del progetto, avvenuta durante la pandemia. 'Genoma scenico' è stato una linfa vitale,
ossigeno, in un momento così greve; ha permesso di non fermarci, di rispondere attivamente alla chiusura forzata dei teatri
mantenendo attiva la relazione con il pubblico. Ho potuto percepire e condividere l’arte come un collante sociale in un momento
così particolare e pesante. Grazie al bando Residenze Digitali, che fu decisamente sperimentale e propositivo,
ho avuto la possibilità di digitalizzare la performance, creando un’originale piattaforma di gioco online
che si svolgeva in live streaming. Ho mantenuto quel carattere di interattività e di liveness, la possibilità di esperire
una creazione che, pur avvenendo a distanza sociale, attivava quella relazione indispensabile per portare avanti
una creazione artistica che si possa dire “viva”.
Siamo in una fase di ripresa pandemica (si spera). Come ti senti, tu, oggi, come artista?
E quali esigenze avverti in questi ultimi mesi, da danzatore e coreografo?
Nel 2019 stavo presentando una nuova creazione dal titolo 'Deserto digitale', uno spettacolo dedicato alla ricerca musicale del compositore
Edgard Varèse. Raccontava il concetto di deserto inteso come un luogo disabitato, privo di vita, e al tempo stesso una condizione
interiore dell’essere umano. Se penso alla pandemia, quello spettacolo è stato per me quasi un presagio, una sorta di premonizione.
Durante la pandemia, poi, ci siamo fermati tutti. Personalmente ho vissuto con una strana serenità questo momento.
Lo dico sempre un po’ sottovoce perché è inusuale parlare di serenità in un momento di forte crisi. Ho avuto la possibilità di regalarmi
delle attività che da tanto non avevo più il tempo di fare: leggere un libro tutto d’un fiato, fotografare, disegnare, cucire per diverse
ore ininterrottamente, come fosse una pratica meditativa. Ho cercato in parallelo di creare delle strategie per mantenermi
attivo e proseguire la mia ricerca in solitudine, elaborando delle riflessioni rispetto al settore culturale, per vivere e partecipare
in modo consapevole quel momento, per prendere una posizione. La sensazione che ho avuto è stata quella di sentirmi una
gemma in attesa di una primavera costantemente tardiva, in attesa di poter fiorire. Ho abitato lo spazio virtuale con le sessioni
di gioco di Genoma scenico in versione digitale, proponendo un utilizzo consapevole delle nuove tecnologie. Tutti noi ci siamo
riversati sul web per vivere un momento di socialità. Era fondamentale partecipare a quel processo di educazione alla tecnologia
in cui eravamo tutti coinvolti.
Oggi viviamo ancora quelli che sono i residui della pandemia, ed è per questo che non ho ancora metabolizzato una sensazione
chiara: posso dire che questa mia risposta è incerta così come sento di vivere in un clima di incertezza e di imprevedibilità
costante, soprattutto nella pianificazione, e nel dover modificare a più riprese le attività in programma. Questo evento globale
ha messo in luce le diverse crepe sotterranee della nostra contemporaneità e del nostro settore culturale.
Paradossalmente, nel 2021 e forse anche nel 2020, ho lavorato con maggiore slancio rispetto a questo 2022.
Ho avuto molta più soddisfazione e più certezza lavorando in quella condizione che sembrava insostenibile anche emotivamente.
Secondo te gli effetti più seri della pandemia sul mondo artistico li dovremo ancora
vedere oppure ci siamo completamente dentro?
Senza voler essere catastrofista, l’immagine che sento più aderente a questo momento è una valanga in
atto che sta modificando il paesaggio sociale e culturale. Sento di contemplare un cedimento strutturale che
trasforma in altre forme il nostro mondo. Occorre prendere posizioni chiare riguardo l’etica lavorativa e mantenere
alto il valore artistico. Per farlo, dovremmo restare focalizzati sull’obiettivo primario dell’arte, ovvero la trasmissione
dei saperi e la generazione di domande e meraviglie.